1. Nascondino al buio

     
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    Molti pensano che le prime apparizioni di extraterrestri, con le loro navi spaziali ipertecnologiche, risalgano a non più di cinquant'anni fa. E' vero che l'espressione "disco volante", a proposito di questi oggetti misteriosi, fu usata per la prima volta nel 1947. Ma le visite degli alieni sono cominciate molti anni prima. Questa storia è del 1926...

    Era novembre. Faceva freddo. Le strade erano immerse nella nebbia. I lampioni a gas erano circondati da un alone luminoso che ricordava le aureole dei santi sui vecchi libri di scuola. Subito dopo cena, come ogni sera, i ragazzini si radunarono all'angolo della strada. Erano tutti maschi, naturalmente: a quei tempi, perlomeno in quel luogo sperduto dell'Inghilterra settentrionale, giocare con le bambine era da rammolliti. Le bambine stavano a casa ad aiutare le loro mamme o a giocare con le bambole, mentre i loro fratelli se ne stavano a giocare fuori, per strada.
    Albert Coleman aveva soltanto nove anni, ma era grande e grosso e nessuno di noi osava mettersi contro di lui. "Cosa facciamo stasera, Albert?", gli chiesi. "Giochiamo a cricket nel vicolo dietro casa?"
    Albert si piantò le mani sui fianchi, sopra i calzoni corti grigi, e mi lanciò un'occhiataccia: "A cricket? In novembre? Non hai nemmeno un briciolo di buon senso, Henry Towler".
    Fui felice che, a causa della nebbia, il buio fosse sceso prima del solito, quella sera: se non altro, l'oscurità nascondeva il rossore che mi era salito alle guance.
    "Giochiamo a calcio sulla strada?", suggerì Richard Brown.
    "No!", disse Albert deciso. "La polizia non vuole più sentirne parlare da quando è andata in frantumi una finestra del negozio di Mrs Ramsbottom".
    "Non siamo stati noi!", disse il piccolo Eddie Reid tirando su col naso. Tirava sempre su col naso, Eddie, anche d'estate. Quella sera sembrava addirittura un rubinetto.
    "Quello che voglio dire" sospirò Albert, "è che la polizia ci tiene d'occhio. Lasciate passare un paio di settimane, e non ci penseranno più. Allora potremo ricominciare".
    "Ma allora a che cosa possiamo giocare, Albert?", chiesi.
    "A nascondino".
    "Yeah!" gridammo, tutti eccitati.
    "Questo palo della luce è la tana", spiegò Albert. Poi indicò quattro ragazzini. "Noi cinque ci nascondiamo per primi. E voi cinque...", continuò, facendo segno al resto del gruppo, "voi conterete fino a cinquanta e poi ci verrete a cercare".
    "Dieci - venti - trenta - quaranta - cinquanta! Tana!", gridò Richard Brown.
    Albert lo fulminò con uno sguardo: "Non fare lo stupido, Richard".
    "Scusa, Albert".
    "Niente imbrogli, e nemmeno spiate. Occhi chiusi finchè non arrivate a cinquanta", ordinò.
    "Non imbrogliate nemmeno voi", replicò Eddie Reid in tono petulante. "Non vale nascondersi nel retro dei cortili perchè non ci possiamo entrare, e non vale nemmeno il cimitero!"
    "Paura?", sogghignò Albert.
    "Sì!", dissi io, e tutti giù a ridere. A quei tempi solo il cimitero ci faceva paura. Oggi sono le strade a essere pericolose. I tempi cambiano.
    Quella sera giocare fu più bello che mai. Strisciare fino all'angolo della strada guardandosi continuamente intorno. Cercare di scovare quelli che si erano nascosti prima che fossero loro a scoprire te. Sentirsi rizzare i capelli in testa quando vedevi un'ombra e sapevi che era uno di loro. E poi la corsa folle fino al palo della luce, gridando "Tana!" e ridendo forte.
    Mi sembrava fossero passati solo pochi minuti quando sentii l'odiato richiamo:
    "Heeen-ry!"
    "Oh, no!", gemetti. "E' mia mamma!"
    "Fai finta di non avere sentito!", mi consigliò Eddie.
    "Ci guadagnerei una bella battuta", sospirai. "Domani sera non mi lascerebbe neanche uscire".
    Raccolsi la mia giacca dalla buca dove l'avevo buttata e la trascinai sui ciottoli lucidi per l'umidità, fino alla porta di casa.
    "Su per boschi e per montagne fino al regno della nanna!", cantilenò la mamma in un tono che non ammetteva repliche. Aprii la bocca per protestare, ma poi cambiai idea e mi avviai su per le scale.
    La camera era fredda e non pensai nemmeno per un attimo di infilarmi il pigiama gelato: sfilatomi in fretta e furia gli scarponcini neri, scivolai sotto le coperte. Poichè mi ero dimenticato di tirare le tende, il lampione proiettava sul mio cuscino i suoi guizzanti riflessi bianchi e blu. E poi c'erano i miei amici che giocavano giù da basso. Sentivo il rumore delle scarpe e degli zoccoli sull'acciottolato, e le grida di "Tutti fuori! Tutti dentro!", e non potevo dormire.
    No, di dormire proprio non se ne parlava. Non ci sarei mai riuscito. La sola cosa da fare era tornare là fuori e finire di giocare con gli altri.
    Ero ancora vestito. Scesi dunque dal letto, raccattai i miei scarponcini, feci le scale in punta di piedi e uscii dalla porta. La mamma stava chiacchierando con la signora del numero 8. Mi rimisi le scarpe e corsi giù per la strada. Sapevo di avere almeno un paio d'ore prima che mio padre tornasse dal pub e chiudesse la porta a chiave.
    "Pensavo che fossi andato a casa", disse Albert con un tono severo da maestro di scuola.
    "Solo il tempo di sbafare una fetta di pane col sugo", dissi e mi rimisi a giocare.
    Quella sera tutti i nostri soliti nascondigli erano stati violati: bisognava spingersi più avanti, oltre la chiesa e oltre anche il cimitero, dove gli ultimi sussulti della recente pioggia, gocciolando dagli alberi sulle tombe, producevano un rumore smorzato come di passi che avanzano faticosamente nel buio.
    Rabbrividii e corsi più in là del nostro isolato, fino a una strada molto distante da quelle dove giocavo di solito. Lessi il suo nome sulla targa: Corporation Road.
    Il vicolo retrostante era immerso nel buio, si intravvedeva solo una chiazza di luce gialla, giù in fondo, dove un'ombra si muoveva furtivamente. In quel giro del nascondino erano già stati presi tutti, eccetto Albert. Se lo avessi scoperto mentre imbrogliava e si nascondeva in qualche cortile, avrei potuto gridare "Visto!" e correre per primo fino alla tana.
    Percorsi in punta di piedi tutto il vicolo, tenendomi accostato al muro di ruvidi mattoni scuri, desiderando che mio padre non avesse messo così tanti chiodi nelle suole dei miei scarponi. Finalmente raggiunsi il cancello da cui fluiva quella luce giallastra. Uno strano ronzio proveniva dal cortile. Fu lì che, per la prima volta, mi venne il sospetto che quell'ombra intravista potesse anche non essere Albert!
    Sbirciai da dietro un pilastro ed ebbi la certezza che non era Albert. In realtà non avrei saputo dire chi fosse colui che stavo osservando, ma in qualche modo sentivo che non era un essere umano!
    Le tende della cucina erano aperte - da lì si spandeva la luce - e tre figure guardavano dentro. Erano tutte alte più o meno come mio padre, circa un metro e ottanta. Indossavano abiti argentati e in testa avevano elmetti metallici. Ai piedi calzavano stivali neri, come gli zaini che portavano sulla schiena. Dagli zaini, che mi ricordavano quelli di Flash Gordon con dentro i missili, partivano dei tubi collegati agli elmetti.
    Fu tale la sorpresa che, lo ammetto, mi scappò anche una parolaccia... Che sberla, se la mamma mi avesse sentito! Fu così, credo, che quei tre si girarono verso di me: e questa volta lo shock fu ancora maggiore. Le loro facce erano protette da una visiera di vetro e non assomigliavano a nulla che avessi mai visto prima. Avevano occhi neri, sottili, e una fessura al posto del naso, ma non vidi nessuna bocca.
    "Albert me l'aveva detto di non andare a zonzo nei cortili", gemetti.
    Il tipo che stava in mezzo era un pochino più alto degli altri due. Fece un passo avanti ed emise una specie di buffo gorgoglio, come quello dell'acqua sporca quando finisce nello scarico. Non mi fermai a chiedere se poteva ripetere perchè non avevo capito quello che aveva detto: preferii darmela a gambe.
    Anche Albert stava correndo verso la tana, e benchè al solito corresse più veloce di chiunque altro del nostro gruppo, lo superai di slancio. I miei scarponi fecero scintille sull'acciottolato mentre giravo l'angolo della nostra strada.
    "Forza, Henry! Lo stai battendo!", gridò qualcuno.
    "Ma dove sta andando?", chiese il piccolo Eddie, mentre sorpassavo, ignorandolo, il palo della luce e mi precipitavo in casa. Mi tolsi gli stivali, aprii la porta e via, su per le scale come un topo con la coda in fiamme! Senza perder tempo ad armeggiare con il pigiama mi tuffai sotto le coperte e me ne stetti lì buono buono. Non riuscivo più a smettere di tremare.
    Più tardi sbucò dalla porta la testa di mio padre.
    "Buona notte! Sogni d'oro!", mi disse, come faceva ogni sera.
    Ma io avevo le mascelle troppo contratte per rispondergli. "dorme", sussurrò alla mamma, mentre si avviavano verso la loro camera.
    Dormire?
    Ero convinto che non avrei più dormito per il resto della mia vita.
    Tuttavia, probabilmente, col tempo avrei dimenticato tutto, e mi sarei convinto che si era trattato solo di uno strano sogno, se il giorno dopo, a scuola, il maestro non avesse parlato del Natale, da cui ci separavano solo cinque settimane. Quando arrivò ai tre Re Magi e alla loro visita al piccolo Gesù nella stalla, io gridai:
    "Io li ho visti!"
    Non so perchè lo dissi. Le parole mi uscirono da sole. "Ho visto i tre Re Magi in un cortile di Corporation Road".
    All'inizio il maestro mi minacciò, dicendo che le avrei prese se avessi continuato a scherzare su certe cose. Io però cominciai a raccontargli tutto, senza più riuscire a fermarmi. Devo essere stato convincente, perchè tutta la classe se ne stette zitta ad ascoltarmi.
    In qualche modo la notizia arrivò ai giornali, perchè la sera dopo, mentre stavo mangiando un po' di pane e marmellata con una tazza di tè, venne un giornalista a intervistarmi. Ebbi l'onore di una foto sul giornale. Altre persone scrissero per dire che in quella stessa sera avevano avvistato nel cielo delle strane luci. Per diversi giorni i miei compagni non parlarono d'altro.
    La gloria, però, fu di breve durata. I giornali si occuparono del caso ancora per qualche tempo, ma prima di Natale era già tutto dimenticato. Anche se si verificò un ultimo avvenimento strano che ancora oggi sono certo che non si trattò solo di una fantasticheria infantile.
    Due giorni dopo Natale sentimmo bussare alla porta. Mio padre era ancora a casa per le vacanze e se ne stava seduto in poltrona con la pipa in bocca e i piedi vicino al caminetto, mentre la mamma sferruzzava per lui un nuovo paio di calze. Il suo modo di cacciare i piedi fin dentr il camino rendeva indispensabile provvedere ad un continuo rifornimento.
    "Chissà chi può essere", disse la mamma.
    "C'è solo un modo per scoprirlo", disse mio padre, senza accennare a muoversi.
    La mamma appoggiò il lavoro a maglia, guardò storto papà e andò ad aprire. Sentì delle voci nel corridoio. "Mrs Towler?", chiese qualcuno. Era una voce meccanica, cigolante, con un accento strano. "Siamo del Ministero della Guerra. Vorremmo scambiare due parole con il piccolo Henry".
    "Ma certo, prego", disse la mamma, e li fece accomodare in sala. Erano due uomini vestiti di nero. C'era qualcosa, in loro, che mi fece rabbrividire, benchè fossi seduto sul tappeto di fronte al fuoco. Stavo giocando con il mio regalo di Natale: un trenino di legno con tanti vagoni.
    La mamma prese due sedie dal tavolo da pranzo e i due si sedettero. Erano dritti e impettiti come gli schienali su cui si appoggiavano, e pallidi come la luce della lampada a gas. I loro occhi erano più gelidi dell'inverno. Uno dei due posò una scatola nera sul tavolo, mentre l'altro lentamente cominciò a parlare.
    "Dunque, Henry", disse. Le sue labbra si muovevano appena. Erano lucide, color rosso scuro, e avevano un potere ipnotizzante. Non riuscivo a distogliere lo sguardo. "Hai raccontato un sacco di storie ai giornali, a quanto pare?"
    "Sì, signore."
    "Ma non storie vere", continuò l'uomo, e la sua voce meccanica si fece più bassa e minacciosa. "Li hai messi nel sacco".
    "Un momento! Il nostro Henry è un ragazzino scatenato, ma non dice bugie", attaccò mio padre, ma improvvisamente chiuse la bocca e sembrò sul punto di soffocare. Notai che la mamma sembrava congelata, i ferri da maglia immobili nelle mani rigide.
    "In realtà, Henry", riprese l'uomo, "ti sei addormentato. E hai solo sognato di essere uscito a giocare e di avere incontrato degli strani uomini vestiti d'argento".
    "Non è vero!", protestai.
    "E' così, invece", insistette l'uomo. "Ti sei inventato tutto per giustificare la tua uscita sui tre Re Magi. Il maestro si era arrabbiato e tu hai tirato fuori questa storia".
    "No! Mi hanno visto tutti. Sono tornato a giocare dopo che mi ero coricato dieci minuti".
    "E' così, allora! Hai disubbidito ai tuoi genitori! Hai inventato questa storia per non essere punito dopo che te ne eri uscito di nascosto!", disse l'uomo, questa volta a voce molto alta.
    "No!", gridai.
    "Sì, invece! Non hai idea del panico che puoi creare tra la gente diffondendo queste stupide voci sui tuoi avvistamenti di alieni? Per fortuna nessuno crederà alle parole di un bambino!", disse ancora l'uomo, mentre la sua voce si riduceva a un sussurro. Il rosso delle sue labbra cominciava a scolorire, come se si trattasse di rossetto. La sua faccia era contratta, sbilenca.
    "E' tutto vero!", mormorai quasi in lacrime.
    All'improvviso si alzò e disse: "Andiamo, 376". Anche il suo compagno con la scatola nera si alzò: insieme i due riguadagnarono l'uscita. La porta sbattè e non li vedemmo mai più.
    La mamma scosse la testa ed esclamò: "Bene! Mi metterò ai piedi della scala!"
    Il papà guardò la sua pipa spenta e sbattè le palpebre come ridestandosi da uno stato di torpore. "Che cosa?", disse.
    Nel corso di tutti questi anni mi è accaduto talvolta di dubitare di quello che ho visto, quella sera, in Corporation Road. Ma il ricordo della visita di quei due uomini vestiti di nero mi convince ogni volta di più che avevo effettivamente visto qualcosa. Qualcosa che non avrei dovuto vedere.
    Qualcosa che proveniva da un altro mondo.
    E anche se dovessi vivere per altri settant'anni, non dimenticherò mai la notte in cui ho incontrato i tre Re Alieni.
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